Donatella La Monaca – ricercatrice di Letteratura italiana contemporanea
Storie d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco
In linea con la raffinata scelta di impianto che scandisce le quattro partizioni del volume, anche le storie di terra si aprono sui versi di Giovinezza di Judy Light Ayyildiz , instaurando una sorta di continuità ossimorica con la sezione precedente. La levità dell’aria lascia, infatti, il passo alla concretezza della terrestrità, anch’essa però solcata in una pluralità di accezioni: dalla materialità intesa come sudditanza alle leggi utilitaristiche del denaro cui l’araba Wajiha Al Huwayder dà voce nel primo degli otto racconti, Una manciata di terra, alla materialità ambita come ancoraggio ad una terra ‘madre’. A Piter non servono le stelle recita, infatti, il titolo dell’ultima narrazione di Laura Salmon, quanto un luogo fisico cui appartenere. Ma dalla terra d’origine ci si può anche voler allontanare anche se il luogo fisico cui si appartiene è un Giardino dai diciassette tipi di rose che, nel racconto di Mine Sevgi Ozdamar, custodisce in una sorta di prigione dorata il “sogno di un’altra terra”. E il “giardino”, esemplarmente eletto dai celeberrimi Ricordi d’Infanzia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ad espressione dei tratti più creativi dell’età adolescenziale, riveste nelle storie di Anna Cottone ed Edvige Giunta una centralità legata proprio alla fanciullezza e alla memoria. Nei Giardini d’infanzia, evocati con vividezza descrittiva dall’autrice palermitana, un drappello di bambini vive la sua ‘avventurosa’ formazione attraverso la scoperta di giochi ideati e vissuti in un contatto corporeo con la natura, con la terra, qui espressione di un rapporto ancora vero, autentico con la vita. Un legame, che con l’ingresso nella età adulta, si sfalda e gli odori, i sapori, le sensazioni di cui entrambe le narrazioni trasudano, confluiscono nella Giara della memoria di Edvige Giunta, patrimonio di un passato che non può più ritornare. Verso un viaggio senza ritorno muovono le due figure materne di Polvere alla polvere di Judith Chernaik e del Fardello della terra di Karen King Aribisala: l’una scortata dall’incedere meditativo del ripercorrimento diaristico, l’altra travolta dal ritmo incalzante di una litania funebre ossessivamente segnata dall’immagine del “peso” della terra, “fredda” e “rigida” sepoltura.
L’empito del “torrente che canta tutta la notte” dei versi di Mimi Khalvati Soapstone Creek e i “campi di tabacco che ondeggiano nel vento e il mare in lontananza” della prosa poetica, Acqua di Erendiz Atasu, aprono, invece, all’insegna del perpetuo moto vitale, le storie d’acqua. Ed è sul filo rosso del movimento che l’intera sezione si modula: memoriale, quasi arcaico nella Bambina del Nilo di Susan Bashier; tumultuoso come l’onda marina che travolge in una simbiosi mortale nell’Amante dell’acqua salata di Asma Gherib; intimo, meditativo, liberatorio come il bagno rituale, nel Mikvè di Esti Lidar; dirompente come “lo scroscio d’acqua” che giunge in piena a “divellere finestre e persiane” nella Casa di Vanna Loiudice; vivificante e benefico come Il fiume dell’amore che “gorgoglia dal grembo” martoriato dell’Iraq di Haneen Omar; eterno e ciclico come la Marea che nell’ultimo racconto di Francesca Traina, complice l’andamento ondivago della scrittura, accoglie, disperde, e al tempo stesso perpetua i destini umani. Su un’analoga cifra metamorfica s’intonano i versi di Asma Gherib, K.H.YA.’A.S., le lettere sacre che introducono al rito di purificazione della sura e che inaugurano l’ultima partizione del volume su un’immagine palingenetica del fuoco, ripresa poi con vigoria di pensiero e di espressione nel racconto di Marinella Fiume, Il signore del fuoco, dedicato allo scomparso esploratore dei cieli Angelo D’Arrigo: “il fuoco si trasforma nell’acqua, ma questa stessa dissoluzione del fuoco equivale alla nascita, e tutto tornerà all’originaria esplosione. Comune è infatti il principio.” Quest’idea della potenza ignea cui si riconducono inizio e fine delle sorti umane ispira, pur diversamente, anche le altre storie: brucia infatti tra le spire di un rogo distruttivo Il villino di Laura Auteri, emblema intorno al quale si addensano vicissitudini generazionali, relazioni familiari, destini di solitudine di cui, con un protagonismo inanimato che si nutre delle migliori pagine della tradizione letteraria europea, la “grande casa” somatizza ogni ferita. Proprio attraverso il minuto pedinamento descrittivo di ciascuna di tali ‘lacerazioni’, crepe, scricchiolii, infiltrazioni d’insetti, così come esse si ingigantiscono nella mente adulterata dell’ultimo erede, l’autrice narra anche lo sviluppo di un malessere interiore.
La “fiamma di Israele”, la “luce che illumina le genti” arde, invece, al cuore del racconto di Eleonora Chiavetta La Candelora, intensa riscrittura inventiva dell’episodio evangelico della presentazione di Gesù al Tempio, rivissuto attraverso la sensibilità ‘eletta’ della profetessa Anna. “Non ansiosa, né turbata, ma trepidante” attende, insieme al vecchio Simeone, il compiersi del prodigio. Ed è infatti in un clima narrativo gravido di sospensione che matura l’evento epifanico, in un crescendo siglato proprio dall’intensificarsi delle metafore di luce e calore: “il drappo cremisi dell’altare”, il volto di Simeone “bruciante, come se mille fiaccole lo accendessero” e le “vesti rosse della profetessa e di Maria” che si imporporano intorno al “piccolo fagotto”. Un’altra “Fiamma inestinguibile”, questa volta però accesa da una sensualità tutta terrena alimenta il monologo di Delia Vaccarello, Pace viva, con cui questo volume si conclude. Una ‘confessione’ amorosa ossimorica come il titolo che la ispira: bruciante, “viva” per la passione che svela e al tempo stesso asciutta nelle movenze con cui si snoda, ‘appagata’ come la ‘pace’ che può donare un sentimento ricambiato.
In modo allusivo o al contrario esibito, talvolta provocatorio, ciascuna delle storie, così trasversalmente attraversate, dall’angolo visuale da cui sceglie di narrare la realtà, si offre anche come un autoritratto, svela un’identità, dilata le zone d’ombra dell’ ‘io’. Risuona allora forte l’eco delle parole di Elsa Morante quando scrive, in una forma implicita di autoesegesi, che “per quanto creda di inventare, ogni narratore, pure nella massima oggettività, non fa che scrivere sempre la sua autobiografia. Anzi, non sono le cronache esterne della sua vita, ma proprio le sue invenzioni che spiegano il tema reale del suo destino. Lo spiegano, magari, a sua insaputa: e con suo stupore, o negazione, o scandalo”.