Nella lista delle autorizzazioni commerciali nel centro storico ci stanno per lo più bar, pub, ristoranti, B&B e alberghetti. Nella lista delle cessazioni ci sono, soprattutto, artigiani, negozi di abbigliamento, insegne storiche. Sta tutto in questo dato la contraddizione di una fetta di città che sulla carta può mostrare un saldo positivo, negli ultimi tre anni, fra saracinesche calate e quelle alzate: 570 contro 730. Se si va a controllare con attenzione la lista, si scopre che circa 200 autorizzazioni sono state rilasciate ad immigrati: 50 in via Maqueda e una ventina in corso Vittorio Emanuele, minimarket e articoli da regalo, soprattutto. Mentre sono circa 300 le «licenze» per pubblici esercizi (pub, bar etc.. a volte un singolo esercizio ottiene più autorizzazioni) e solamente 40 gli artigiani. Infine, attività commerciali ricettive ed altro. E allora la domanda è: che cosa sta diventando il centro storico di Palermo? Si va trasformando in un enorme luogo turistico e sempre meno residenziale? E come si può coniugare con i continui provvedimenti che tendono a limitare gli effetti collaterali della movida selvaggia?
«Negli anni Novanta – dice la consigliera Nadia Spallitta, che sull’argomento ha presentato anche un’interrogazione – era stato varato un progetto che prevedeva l’insediamento in centro dei vecchi mestieri. Che evidentemente con questi numeri sembra essere fallito. E non è un caso forse se le nostre migliori tradizioni commerciali stanno scomparendo. Allora mi sembra – continua la Spallitta – che serva una nuova riconsiderazione e una nuova idea di centro storico». Le 570 le chiusure, molte di negozi storici, contemplano circa 30 artigiani di antica tradizione. Ed è come se scomparisse la memoria del carattere di un luogo.
«Il problema mi è chiaro ed è più volte stato sollecitato da associazioni e residenti. Ma nessuna amministrazione, in nessuna parte d’Italia, può minimamente pensare di limitare le autorizzazioni o, peggio, orientarle per tipologia commerciale – spiega Giovanna Marano, assessore alle Attività produttive -. Le norme sulle liberalizzazioni parlano molto chiaramente e soprattutto non ci danno alcuna possibilità di intervento». Insomma, dobbiamo rassegnarci a una proliferazione di locali di somministrazione che fatalmente hanno un impatto di notte sui residenti di grande rilevanza. Che nessuna ordinanza e nessun regolamento sulla movida può veramente mitigare, a meno che non ci sia un controllo capillare. Il che è impossibile, sia per il numero di agenti della polizia municipale che servirebbero sia per i costi che tutto questo colossale piano di controlli comporterebbe.
«Dire che gli artigiani sono scomparsi è sbagliato – ragiona la Marano -. Ma certo, con una brutta parola si può dire che si sta terziarizzando il territorio. Ed è sicuramente in atto un fenomeno di conversione turistica del centro della città. La domanda e l’offerta si incontrano, vecchia storia, ed ecco che nascono i negozi che maggiormente vengono richiesti. per fortuna ora col primo saldo positivo dallo scoppio della crisi». Insomma, se il Comune allarga le braccia sull’eccesso di locali che proliferano, Confcommercio chiede comunque maggiori controlli contro l’abusivismo.
Dice la neo eletta presidente Patrizia Di Dio: «È vero, si è passati da un periodo storico in cui il commercio era imbrigliato in griglie strettissime, addirittura con il contingentamento per tipologia produttiva, a una situazione in cui è impossibile qualsiasi armonizzazione». Il fenomeno dei commercianti immigrati, che la Di Dio non ha mai visto come negativo in sé, ora assume i contorni di concorrenza sleale riferita soprattutto alle vendita di alcolici: «Ci sono minimarket gestiti da stranieri che restano aperti sino a notte inoltrata – spiega la presidente di Confcommercio – e che in barba ai divieti riescono a vendere birra e alcolici in bottiglia. Questa cosa qua va fermata, va controllata meglio anche perché non è giusto che ci sono locali supercontrollati e multati e altri che, di fatto, possono fare ciò che vogliono».
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