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domenica, 22 dicembre 2024
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Nadia Spallitta

Ultimo aggiornamento

anniversario strage di Capaci

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Giovanni Falcone – magistrato
 
 
 
 “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine” 
La figura di Giovanni Falcone rappresenta un pilastro fondamentale nella lotta alla mafia e più in generale nella storia della Repubblica Italiana; uno straordinario esempio di fiducia e dedizione alle istituzioni: la fedeltà incondizionata di Falcone per lo Stato è stata a lungo espressa come un’anomalia, rispetto alla Sicilia e al suo capoluogo Palermo che dopo la sua morte sembrano aver finalmente ritrovato il coraggio di combattere la piaga della malavita.
Nel maxiprocesso che termina nel 1987 mettendo in ginocchio Cosa Nostra, il ruolo incarnato dal giudice Falcone è essenziale perché definisce nuove procedure e più efficaci metodi d’indagine, e fa capire che una strategia coordinata, portata avanti con determinazione, può sconfiggere definitivamente la "piovra".
Una vita di lotta alla mafia
Nato a Palermo il 18 maggio 1939, Giovanni Falcone si laurea in Giurisprudenza nel 1961 e diventa magistrato nel 1964; in dodici anni di esperienza come Sostituto Procuratore a Trapani il suo interesse si sposta dal diritto amministrativo a quello penale e, dopo appena un anno di lavoro a Palermo, nel 1979 viene impegnato come Giudice Istruttore. L’eco degli omicidi, delle faide che insanguinano la città, lo raggiungono a Palazzo di Giustizia e consolidano il suo impegno a combattere il crimine organizzato. 
Quando il Consigliere Rocco Chinnici gli affida l’inchiesta sul mafioso Rosario Spatola, il progetto di Falcone non è quello di condurre le indagini sul singolo caso, ma di arrivare ad una conoscenza dettagliata ed esauriente del fenomeno mafioso: comporre un quadro d’insieme che permetta di estirpare Cosa Nostra alla radice. Sotto la guida di Chinnici, si forma al Tribunale di Palermo una squadra affiatata di magistrati che si dimostra capace di intraprendere questa battaglia con successo.
Rosario Spatola è il principale costruttore di Palermo, ricicla il denaro frutto del traffico di eroina dei clan italo-americani Boutade-Inzerillo-Gambino. Per indagare su Spatola hanno già perso la vita il capo della Mobile Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Falcone scopre che Spatola è parente diretto dei boss mafiosi italo-americani. Ma questo non gli basta. E’ ai soldi dei mafiosi che Falcone vuole arrivare. Così, aiutato dal capo della Mobile, Ninni Cassarà, compie una serie di perquisizioni nelle principali banche siciliane, provocando l’ira della Palermo che conta. Intanto, Giovanni intuisce che i clan mafiosi agiscono separatamente ma hanno un unico vertice, proprio a Palermo. A Giovanni viene affiancato l’agente Lillo Zucchetto, incaricato di proteggerlo. Falcone va a New York e grazie alla collaborazione di Rudolph Giuliani, interroga il trafficante di eroina Gillet e scopre che le raffinerie che trasformano la sostanza base in eroina si trovano proprio a Palermo, e che l’uomo che organizza il traffico è il boss Mafara. Intanto a Palermo esplode la guerra di mafia. Le condanne del processo Spatola hanno indebolito i vecchi boss Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo, che vengono eliminati nell’ambito di una faida fratricida. I corleonesi di Totò Riina hanno dato inizio al loro assalto a Palermo uccidendo chiunque non passi dalla loro parte.
Il processo Spatola, senza precedenti per la fermezza della sentenza con cui si conclude, è in effetti la prima manifestazione del nuovo approccio all’inchiesta messo a punto da Falcone: le indagini bancarie e patrimoniali, la ricostruzione dei percorsi di circolazione del denaro sporco permettono di comporre una visione d’insieme delle associazioni mafiose, dei traffici e degli appalti ad esse collegati, e forniscono prove determinanti che non possono essere ignorate traducendo, come in passato, le sentenze in desolanti assoluzioni. Più le banche si mostrano riluttanti nel fornire informazioni, più Falcone si convince di essere vicino ai suoi obiettivi, e quando arrivano minacce ed avvertimenti si rafforza in lui l’ostinazione a proseguire la lotta al potere delle cosche.
Sangue a Palermo
La reazione della mafia, che avverte un pesante pericolo per la propria sopravvivenza, è spietata: il 30 aprile 1982 viene assassinato il deputato comunista Pio La Torre, fautore di una proposta di legge in Parlamento per l’introduzione del reato di associazione mafiosa e la confisca del patrimonio dei boss; il 3 settembre dello stesso anno i sicari uccidono il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, tornato in Sicilia dopo le vittoriose operazioni contro il terrorismo per affrontare la situazione di emergenza.
La collaudata squadra di magistrati palermitani lamenta la mancanza di poteri speciali, negati dal governo allo stesso Dalla Chiesa, ma non abbandona il difficile lavoro; se saluta con speranza l’approvazione della legge elaborata da La Torre e siglata dal Ministro dell’Interno Rognoni, deve far fronte ad una spaventosa catena di omicidi che non conosce soste: il 29 luglio 1983 muore in un agguato anche Rocco Chinnici, lasciando i suoi collaboratori nello sconforto; l’ Italia intera e’ a lutto..
Il maxiprocesso alla mafia
Il lavoro dei giudici riprende però con nuovo slancio ed affiatamento all’arrivo di Antonino Caponnetto, che subentra a Chinnici riprendendone opera e metodi, e inoltre ripropone a Palermo una strategia già efficace contro il terrorismo: la creazione di un pool di magistrati dedicati esclusivamente alla lotta contro la mafia.
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello e Leonardo Guarnotta possono concentrarsi nelle indagini più importanti senza distrazioni, esonerati dalla normale attività giudiziaria; la loro idea del pool come entità collettiva, organizzazione di squadra non soggetta alle vulnerabilità dei singoli individui risulta estremamente efficace perché consente alle indagini di sopravvivere anche nel caso in cui il magistrato che le conduce venisse assassinato.
E’ il 1984 quando la cattura e le successive confessioni di Tommaso Buscetta, riconosciuto come il primo pentito nella storia di Cosa Nostr permettono al pool antimafia di analizzare con capillare precisione la rete di collegamenti della piovra, assicurare alla giustizia interi clan (circa 500 arrestati durante il cosiddetto “Blitz di San Michele”) ed istituire un maxiprocesso con più di 400 imputati.
Il processo che inizia il 10 febbraio 1986 a Palermo nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone è la più grande ed ambiziosa operazione giudiziaria condotta contro la cupola, il vertice dell’organizzazione mafiosa: non si tratta di un procedimento particolare, ma di una causa contro il sistema mafioso nel suo complesso, il primo sistematico tentativo di decapitare la piovra incarcerandone i capi fino ad allora sempre sfuggiti alla giustizia. L’eccezionalità dell’evento è dimostrata anche dall’enorme spiegamento di uomini e mezzi che devono garantire la sicurezza per tutta la durata del dibattimento. Il verdetto che arriva dopo 22 mesi, il 16 dicembre 1987, condanna i padrini a 19 ergastoli ed altri 339 imputati a 2665 anni di carcere complessivi: per i componenti del pool si tratta di uno straordinario successo poiché vedono finalmente riconosciute l’importanza del loro lavoro e l’abnegazione con cui viene svolto.
Un impegno tra mille difficoltà
Gli ostacoli a cui è sottoposto il pool sono infatti difficilmente sostenibili: dopo gli omicidi del commissario Beppe Montana (28 luglio 1985) e del vice questore Ninni Cassarà (6 agosto 1985) in forza alla Squadra Mobile, Falcone e Borsellino vengono per sicurezza temporaneamente trasferiti con le loro famiglie al carcere dell’Asinara. I magistrati sono da anni costretti a vivere perennemente sotto scorta, blindati in ogni spostamento e di fatto rinunciano ad un’autentica vita privata per dedicarsi completamente all’impegno verso lo Stato.
Le istituzioni a Roma però non sembrano corrispondere una piena attenzione, e non riescono ad assicurare al pool un’ampia tutela quando inizia una clamorosa serie di attacchi incrociati: da una parte numerosi componenti della stessa magistratura palermitana osteggiano il maxiprocesso, e tra loro probabilmente si inserisce il “corvo” autore anonimo di lettere calunniose, dall’altra la stessa Corte di Cassazione tende a disconoscere presupposti e risultati delle indagini del pool.
Nel 1988, quando Caponnetto lascia l’incarico per limiti di età, a succedergli non è Falcone perché incredibilmente il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferisce Antonino Meli: l’ondata di veleni e polemiche che ne segue, e di cui intanto la mafia approfitta per riorganizzarsi, mette a repentaglio un lavoro decennale e lascia il pool quasi completamente isolato fino al punto da venire ufficialmente sciolto.
Mentre Borsellino è trasferito a Marsala, Falcone viene chiamato a Roma dal Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli per guidare la direzione affari penali, ma non rinuncia ad occuparsi ancora di mafia: molte questioni restano irrisolte e l’impegno di un’intera vita non può essere improvvisamente abbandonato; per questo Falcone insiste sulla creazione di una Superprocura che possa affrontare la malavita con mezzi adeguati. Proprio da Roma ha la capacità di indagare il fittissimo tessuto di intrecci tra politica, economia e una mafia che ormai da tempo non è più confinata nella sola Sicilia ma si è espansa inserendo uomini fidati in tutta la penisola, soprattutto nel Nord Italia dove opera un’imprenditoria non trasparente senza troppi clamori e risulta più facile investire capitali di provenienza illecita o farli transitare verso le banche svizzere.
La strage di Capaci
I torbidi interessi e i potentati minacciati dalle indagini fanno però di Falcone una vittima designata, bersaglio non più delle diffamazioni, ma di una vera e propria guerra che la mafia decide di intraprendere per metterlo a tacere. Falcone e Borsellino sono per la cupola gli avversari più pericolosi, perché essendo siciliani e palermitani conoscono i linguaggi, le regole, le mosse strategiche delle cosche e mettono però la loro conoscenza al servizio dello Stato.
Falcone, miracolosamente scampato ad un attentato dinamitardo il 20 giugno 1989 presso la sua villa sul litorale dell’Addaura, sa di essere condannato e di non poter contare sull’appoggio o la protezione del potere politico, ma continua eroicamente il suo lavoro. Nelle sue stesse parole, si tratterebbe di ordinaria amministrazione: il dovere morale al quale ogni buon cittadino è chiamato non comporta, secondo Falcone, nessun eroismo.
Il 23 maggio 1992, un jet del SISDE trasporta il magistrato dall’aeroporto di Ciampino allo scalo palermitano di Punta Raisi; durante il successivo tragitto verso la città, all’altezza dello svincolo autostradale di Capaci, un ordigno di potenza inaudita travolge la Fiat Croma blindata su cui viaggia il giudice e le due auto della scorta: perdono la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro.
Per la storia italiana si apre una delle pagine più buie: la mafia, dopo avere ucciso anche Paolo Borsellino il 19 luglio 1992, sfida apertamente lo Stato in una guerra che semina esplosioni e distruzione fino a Roma, Firenze, Milano. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, impareggiabili esempi di lealtà e moralità, coraggio e smisurata umanità, sono la luce che negli anni ha dato la forza, la speranza per continuare a credere e lottare: ci hanno insegnato che la mafia deve e soprattutto può essere sconfitta.
materiale tratto dal sito   www.lastoriasiamonoi.rai.it



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