Mario Monicelli – regista
Intervista a Mario Monicelli
A cura di Lorena Crisafulli
Fonte http://www.cultumedia.it
Maestro nel trattare temi forti e tragici con gli strumenti dell’ironia e della leggerezza e con l’abilità dell’autore che, con maestria e arguzia, sa ben maneggiare la cinepresa disegnando situazioni e personaggi, Mario Monicelli rappresenta senza alcun dubbio una delle firme più prestigiose e longeve del cinema italiano. All’attivo conta 65 pellicole, l’ultima delle quali girata all’età di 91 anni ed altrettante sceneggiature.
Ha collaborato con gli interpreti più importanti del panorama cinematografico nazionale, da Totò ad Alberto Sordi, da Anna Magnani a Monica Vitti, per fermarsi solo ai più rappresentativi. E’ il simbolo della “commedia all’italiana”, grazie alla quale è riuscito a dipingere il quadro di un Paese, il nostro, contraddittorio e borghese ma che pure tanto sta a cuore al nostro regista. Lui, che ha usato la macchina da presa come mezzo di espressione autoriale e di denuncia sociale, soprattutto negli ultimi anni non ha mai rinunciato, anche col rischio di scontrarsi con la legge del box office, alla sua vena critica, sarcastica e creativa. Mario Monicelli non è soltanto il grande regista che noi tutti conosciamo, è soprattutto un grande uomo che ha, con il suo lavoro, contribuito a lasciare una traccia indelebile nella storia del cinema, in particolare, e nella società italiana nel suo complesso, di cui ci ha lasciato testimonianza e memoria attraverso i suoi indimenticabili film. Con assoluta deferenza, la parola al Maestro.
Suo padre Tomaso, giornalista e critico teatrale, nonché fondatore nel 1917 della rivista di cinema “Penombra”, influenzò la sua scelta di diventare regista?
No, ho deciso di diventarlo quando ero ancora bambino all’età di cinque, sei anni. Mia mamma mi mandava al cinema insieme a mio fratello maggiore, che ne aveva sette e andavamo al pomeriggio perché era vicino casa. Un cinema piccolo, oscuro, pidocchioso direi. Lei ci accompagnava e ci lasciava lì verso le quindici e ci veniva a riprendere la sera. E noi assistevamo alla proiezione contenti ed entusiasti in mezzo ad una sala affollata, piena di gente, fumo, grida, mamme che allattavano i figli, contadini e pescatori. Tutti seguivano quello che si svolgeva sullo schermo mezzo sudicio, inveivano con improperi contro il cattivo e si esaltavano quando arrivavano i salvatori o l’eroina veniva salvata. Insomma era tutto un insieme straordinario di grida, urla e fumo. Io guardavo quella cosa bianca sul muro davanti a me e volevo entrare in quell’affare lì, che non sapevo neanche cosa fosse. A quei tempi il cinema era davvero una magia. Non capivo se queste persone che si muovevano erano vere o finte. Tra l’altro il film era muto. Quindi tutto quello che avveniva in sala era una partecipazione straordinaria. Non ho mai più sentito, fino all’arrivo del sonoro, film più sonori di quelli muti.
L’esordio alla regia è nel 1934 con il cortometraggio “Il cuore rivelatore”, tratto dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe. Era un appassionato di letteratura gotica?
Non in particolare. Poe era un autore che mi interessava molto. Allora ero giovane, avevo diciotto-diciannove anni, lo leggevo e mi entusiasmava. Per questo c’ho fatto un film. Comunque ho letto anche altri autori, non solo quello.
La collaborazione con Steno ha dato vita a pellicole importanti. Da “Come persi la guerra” a “Guardie e ladri” (1957), da “Totò e le donne” (1952) a “Le infedeli” (1953), dopo le quali la collaborazione tra di voi si è interrotta. Cosa all’origine di quella rottura?
Una rottura dovuta a motivi familiari più che professionali. Lui si era sposato, aveva degli impegni, dei figli. Era giovane e aveva bisogno di lavorare. A me invece, una volta fatto un film, mi piaceva divertirmi. Quindi ad un certo punto gli dissi che non mi andava di lavorare al film successivo e che volevo andare in vacanza e siccome lui aveva necessità di farlo, ci siamo separati in buonissimi rapporti. Abbiamo continuato ad esser amici e a frequentarci, ma non abbiamo più lavorato insieme.
Lei ha diretto un grande personaggio del cinema e del teatro, Totò, macchietta popolare e comico raffinato. Ha avuto qualche difficoltà nel “gestire” un artista del suo calibro?
Quando si lavora con gente di grande qualità e di grande talento è sempre più facile che non con gli altri. Collaborare con persone di prim’ordine e di talento è sempre una cosa facile.
Un pensiero su Alberto Sordi, con cui è stato legato da un grande rapporto di amicizia e di stima, oltre che da una collaborazione professionale.
E’ un ricordo molto bello perché eravamo amici, ci frequentavamo, andavamo a cena la sera prima e dopo il lavoro e anche in vacanza insieme. Dunque avevamo un rapporto professionale ed umano. Anche nell’ultima parte della sua vita, quando era lui l’unico regista di se stesso, fui io il solo da cui accettò di farsi dirigere, perché eravamo da sempre amici e ci stimavamo molto.
Lei ha lavorato con Depardieu e Mastroianni, oltre che con Totò e Sordi. Con quali di questi interpreti pensa di aver espresso al meglio il suo estro registico e autoriale?
Tra i protagonisti che ha citato ho lavorato molto con Mastroianni. Con lui ho diretto anche delle pellicole che mi sono particolarmente care, come “I compagni” per esempio, di cui è protagonista. Un film quest’ultimo che ho fatto proprio pensando a lui e con lui molto volentieri.
Tra le donne che ha diretto, figurano due delle più grandi attrici italiane dello scorso secolo, Monica Vitti e Anna Magnani. Che ricordo ha di loro?
Della Vitti un bellissimo ricordo. Era una donna simpatica, una grande attrice, meravigliosa. Lei era abituata ai film con Antonioni, molto romantici, impegnati e basati sulle incomprensioni. Con me ha potuto fare la commedia ed era contenta di lavorare a qualcosa di diverso. Tra l’altro con questo genere ha avuto molto successo. La Magnani aveva una qualità, una personalità e una potenza straordinaria con le quali mi sono confrontato mettendola insieme a Totò in un mio film. Anche di lei ero molto amico. Frequentavo casa sua e la sera ci si vedeva con altri. A quel tempo eravamo tutti amici. Si era una compagine di circa sessanta, settanta persone tra attori, scenografi e sceneggiatori. Stavamo sempre insieme. Non era come adesso.
A proposito del film con Totò e Anna Magnani, “Risate di gioia” del ‘60, si dice che l’attrice romana accettò con riluttanza di partecipare, perché era convinta che la presenza del comico declassasse il film. E’ vero o sono solo leggende metropolitane?
Il motivo non era questo, perché lei aveva lavorato con Totò facendo delle riviste famose a teatro, quindi avevano già collaborato. Solo che aveva ricevuto l’Oscar in America e in realtà sperava di prendere un attore, un comico americano. Ma siccome io non ne conoscevo, né ne frequentavo ed ero amico di Totò, con cui avevo lavorato per tanti anni, optai per lui. E lei si convinse. Lo stimava senza nessun calcolo rappresentativo.
Lei ha diretto due atti di “Amici miei”, nel 1975 e nel 1982. Il film è basato sulle “zingarate” di cinque amici ormai cresciuti, che non si arrendono agli anni che passano. Com’è nato il soggetto?
“Amici miei” è un film di cui ho fatto il regista, ma che ho scritto insieme a Benvenuti e De Bernardi. Abbiamo raccolto tutto quello che si vede nel film, le beffe e le burle, e le abbiamo inserite al suo interno. A Firenze erano leggende metropolitane. Si diceva che la gente andasse nei paesi fingendo che da lì dovesse passare l’autostrada e bisognasse buttare giù tutto. Stessa cosa per gli schiaffi alla stazione. Cose che si raccontavano, che noi abbiamo raccolto e messo insieme una di seguito all’altra, per poi girare il film che ha avuto un grande successo. Ecco com’è nata l’idea.
Quali le ragioni che l’hanno indotta nel 1977 a girare un film sul libro di Vincenzo Cerami, “Un borghese piccolo piccolo”?
Volevo fare un film e a quell’epoca in Italia c’erano le rapine, l’insicurezza per le strade, negli appartamenti e cominciava a girare la voce che farsi giustizia da sé era la cosa migliore. Un po’ come adesso. Le ronde di notte venivano dall’America dei film che avevano avuto molto successo, come “Il giustiziere della notte”. La storia anche lì di un padre che si era fatto giustizia da solo, perché la polizia non riusciva a trovare l’assassino del figlio. Allora io volevo fare un film in cui si dicesse che farsi giustizia da soli era una cosa orrenda, che non si doveva fare perché inumana. Ho letto il romanzo di Cerami, che raccontava proprio questo e gli ho chiesto se permetteva che facessi il film. Lui mi ha dato il suo consenso e l’ho fatto.
“Parenti serpenti” (1992), ritratto di un’Italia piccolo borghese e trionfo del cinismo familiare. E’ cambiato qualcosa rispetto a quella “piccola Italia” che lei ha rappresentato?
No, anzi è peggiorato. Ultimamente si viene a sapere che ci sono genitori che stuprano le figlie, le nipotine. Queste cose non mi sono neanche azzardato a metterle, ma avviene anche questo nelle famiglie. Quel film, ricalcando la parte ironica, macabra e divertente, risulta un po’ estremo ma in realtà rappresenta bene la famiglia italiana. E’ in quel modo, il suo fondamento è quello. Le turpitudini e gli orrori taciti che avvengono nelle case sono gli stessi.
Alla sceneggiatura ha collaborato anche Carmine Amoroso, che di recente ha diretto “Cover Boy”, un lavoro d’impronta sociale distribuito in poche copie. Come mai secondo lei?
L’idea di “Parenti serpenti” è stata sua, il soggetto è suo. Per quanto riguarda il suo film, “Cover Boy”, l’ho sponsorizzato più volte. Peccato non abbia avuto il successo che meritava. La colpa è dei distributori che sono dei bottegai, dei salumai che non guardano mai la qualità ma solo se la cosa possa piacere o meno.
Il suo ultimo film “Le rose del deserto” (2006) racconta la seconda guerra mondiale, vissuta da un gruppo di militari accampati in Libia. Cosa l’ha spinta a realizzarlo?
Quello è un film che sentivo di fare perché mi meravigliavo di come il cinema italiano, dopo la guerra, non avesse mai fatto un film su quella guerra, perduta, finita col tracollo e con la dittatura a scatafascio. Io avevo vissuto quell’epoca ed ero stato chiamato a combattere, conoscevo le nostre colonie e avevo letto un bellissimo libro di Tobino, “Deserto della Libia”. Lui era di Viareggio come me, mio coetaneo, lo conoscevo e lo incontravo durante le passeggiate. Tutte queste cose mi hanno spinto ad occuparmi della vicenda per farne un film.
Ho letto che avete incontrato alcune difficoltà nel reperire i fondi per finanziare la pellicola. Questo secondo lei ha avuto delle ripercussioni sul risultato finale dell’opera?
Si ripercuote sempre, ma non è la prima volta. Tutti i film in realtà hanno sempre dei guai, delle contestazioni, delle storie per il finanziamento. Tutti, da quando nasce il cinema. Quindi fa parte del mestiere affrontare queste cose e risolverle, litigare, accettare e costringere il produttore a fare diversamente.
Di recente ha girato anche alcuni episodi di film corali, come “Un altro mondo è possibile” (2001) e “Lettere dalla Palestina” (2002). A testimonianza del suo impegno sociale?
Sì, siamo andati al G8 di Genova, eravamo una dozzina e lo stesso anche in Palestina. Ognuno faceva una parte, un breve racconto di quello che vedeva. Abbiamo messo tutto insieme e realizzato questi due film, che hanno avuto un buon esito ma erano due documentari. Il cinema italiano che conta, o almeno quello che contava, è sempre stato di protesta sociale, culturale, politica e civile. Quello è sempre stato un buon cinema.
Che cosa è cambiato di significativo nel modo di far cinema dagli anni ’30 ad oggi?
E’ cambiato tutto. Quello di oggi non è più un cinema che rappresenta con spregiudicatezza, con coraggio, l’Italia che ha di fronte. Non racconta più questo. Salvo pochissimi casi che sono perle nel fango, non ha nessun impegno, né sociale, né culturale. Non racconta più l’Italia come ha fatto il cinema del dopoguerra degli anni ’50 e ’60. Si guarda solo a
lle solite storielle da quattro soldi basate sul sesso (molto), nudità e gelosie. Storielle che finiscono come bere un bicchier d’acqua o che hanno successo una sola stagione e poi spariscono, finendo nell’immondezzaio e nessuno se ne ricorda più. Specialmente quelli italiani, perché qualche buon film dall’estero proviene.
C’è qualche regista hollywoodiano che le sta particolarmente a cuore?
Sì, ci sono autori hollywoodiani bravi, ma io preferisco il cinema indipendente da cui esce qualcosa di coraggioso. Di “in-dipendente” per l’appunto. Quello slegato dalle grandi case di produzione cinematografica.
Secondo lei, che è uno dei principali interpreti della “commedia all’italiana”, chi tra i registi italiani emergenti potrebbe raccogliere il suo testimone?
Io non voglio lasciare nessun testimone, non sono così presuntuoso. Ognuno fa quello che vuole per conto suo. Registi di qualità vera e propria ce ne sono pochissimi. Sorrentino e Garrone sono in grado di fare film coraggiosi, ma anche Salvatores ha realizzato pellicole buone. Relativamente alla commedia all’italiana non mi viene in mente nessuno.
Una curiosità. C’è un film in particolare che avrebbe voluto fare e che, per motivi di budget o di altra natura, non ha potuto realizzare?
Si ce n’è uno che avrei voluto girare sulla fine degli anni ’50, ma non sono mai riuscito a realizzarlo. Però forse è meglio così, le cose che non si possono fare è meglio che non si siano fatte.
Lei ha ricevuto tanti premi, il David di Donatello, la Palma d’oro, il Nastro d’argento, il Leone d’oro alla carriera. Le è mancato l’Oscar, al quale ha avuto quattro nomination, a coronamento di una carriera comunque straordinaria?
I premi che ho ricevuto sono stati molto emozionanti e mi hanno fatto piacere. Le nomination non contano nulla. Chi arriva secondo non è primo e allora finisce nel dimenticatoio. Bisogna salire sul gradino più alto, altrimenti serve a poco. E’ meglio posizionarsi al primo posto ad un festival qualunque che secondo ad Hollywood.