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venerdì, 22 novembre 2024
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Nadia Spallitta

Ultimo aggiornamento

Roberto Alajmo

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Roberto Alajmo – scrittore

 

LA FAMOSA RIVOLTA DEI CANI IN SICILIA

 Questo non è un racconto fantastico. In realtà le storie contenute in esso sono storie vere. Quattro episodi avvenuti a pochi chilometri e settimane di distanza l’uno dall’altro.
 Il primo episodio venne registrato a Termini Imerese nel mese di gennaio. Non si sa precisamente quando ebbe inizio perché poi tutti ricordavano che i cani davanti al tribunale c’erano sempre stati. Solo – si vede – successe un giorno che questi cani diventarono uno di più anziché uno di meno, si sentirono forti e cominciarono ad abbaiare contro un commesso che trasportava faldoni processuali. Il commesso aveva da sempre paura dei cani, e vedendone una decina che ce l’avevano con lui, pur cercando di mantenere un certo contegno, scappò via e rinunciò a entrare fino a quando non riuscì a farlo assieme a un gruppetto di altre persone che si facevano coraggio a vicenda. Allora i cani stettero al loro posto e non li degnarono di uno sguardo.
Ecco: a posteriori si può dire che quello fu il primo segnale. A Termini Imerese, così come altrove, prima di allora i cani avevano spadroneggiato semmai la sera, quando davano l’assalto ai cassonetti dell’immondizia per trovare qualcosa da mangiare e insomma per stabilire che almeno nelle ore notturne quello era loro territorio. La paura del commesso del tribunale fu probabilmente un piccolo gradino, ma significativo, nella scala evolutiva. Un gradino in salita e uno in discesa. I cani capirono forse per la prima volta nella Storia del Mondo che se erano molti potevano far spavento agli esseri umani anche di giorno.
 Molti erano effettivamente diventati i randagi che si davano convegno davanti al palazzo di giustizia. Prima nei pomeriggi stavano sdraiati per terra al sole, o d’estate all’ombra, ma da quel giorno li prese una specie di attivismo. Il pomeriggio si mettevano in permanenza davanti al cancello d’ingresso e impedivano a chiunque di entrare e uscire. Quando fu del commesso coi faldoni la cosa ebbe un certo rilievo, ma all’inizio non più di tanto. E così fu anche il giorno seguente, quando i cani presero a perseguitare cittadini e impiegati a casaccio. Lo scandalo vero e proprio scoppiò due giorni dopo, quando  impedirono l’ingresso a un avvocato. E poi a un altro, e così via. Si fece in tempo a indire una assemblea della camera penale per chiedere che il problema venisse affrontato, quando si scoprì che i cani non facevano entrare equanimemente avvocati e magistrati, oltre che ogni altra categoria umana. Quando a non potere uscire fu un sostituto procuratore il problema venne sollevato anche dai giornali locali.
  Il tribunale di Termini Imerese è un edificio moderno e all’apparenza razionale; così almeno sembra a guardarlo dall’esterno oppure a visitarlo dall’interno, una volta riusciti a entrarci. Solo che per via dei cani, per entrarci in quelle settimane bisognava aspettare di formare un piccolo gruppo di persone ugualmente dirette. Di fronte ad almeno cinque umani i cani non osavano tentare aggressioni. Erano, sì, aggressioni, perché dopo il semplice ringhiare erano venuti gli inseguimenti, e dopo gli inseguimenti un civilista giurò di avere visto le gengive scoperte di un randagio tanto vicine da potersi prefigurare un morso, se il civilista medesimo non avesse scartato la gamba in extremis. Il cane aggressore, raccontò l’avvocato, si ritenne per quella volta soddisfatto del panico che era riuscito a creare: non ritentò il morso e si allontanò all’apparenza pacifico.
 Dopo quell’episodio l’assemblea della camera penale che in un primo tempo era stata sospesa venne riconvocata ed estesa a tutti gli avvocati, anche ai civilisti. All’ordine del giorno, l’emergenza cani. Si chiese un intervento del presidente del tribunale, il quale, sebbene varcasse i cancelli del cortile sempre in automobile e sotto scorta, non fu insensibile al problema. Telefonò al sindaco, che a sua volta telefonò al presidente dell’Azienda USL competente per territorio.
 L’AUSL frugò nel proprio organico e trovò che possedeva due accalappiacani professionisti, un furgone cellulare canino e tutta l’attrezzatura per potere eseguire il lavoro. Non aveva – invece, purtroppo – un apposito canile, poiché quello era competenza del Comune. Seguirono diverse settimane di rimpallo delle responsabilità, visto che il Comune non si riconosceva il dovere di fornire una dimora ai randagi catturati.
 Nel frattempo forse nell’ambiente animale si era sparsa la notizia che davanti al tribunale stava sorgendo uno Stato Indipendente Canino. Di fatto successe che lì davanti si diedero appuntamento tutti i randagi della città. E quanto più numerosi diventavano i cani, tanto più numerose dovevano diventare le pattuglie umane in entrata e in uscita. I gruppi in uscita si formavano dentro il cortile e, aspettando di fare fronte comune, le persone che arrivavano per prime dovevano subire i latrati di sfida del branco di fuori. Poi magari uscivano, sempre in gruppo, e non succedeva niente: i cani tornavano a sdraiarsi sull’asfalto.
 Quando si sdraiavano, però, spesso si andavano a mettere proprio davanti al cancello, di modo che nemmeno con le auto si potesse passare. Anche quando l’automobile arrivava a pochi centimetri da loro e il claxon suonava, loro facevano finta di dormire. O peggio: guardavano e tornavano a fare finta di dormire, come se l’auto blindata che avevano visto non fosse un motivo sufficiente a spostarsi. Una situazione del genere poteva durare anche diversi minuti, prima che col suo comodo il cane decidesse di alzarsi e andare via.
 Il Procuratore della Repubblica, una volta che aveva fretta di uscire, ebbe l’istinto di ordinare al suo autista di procedere e investire il cane d’ostacolo. L’ordine troppo crudele non lo diede, ma dal suo stesso telefono cellulare chiamò il sindaco per chiedere, insomma, che cosa aveva intenzione di fare. E comunque nemmeno quella telefonata ottenne l’effetto di fermare le polemiche fra amministrazione comunale e AUSL. Per molti mesi ancora i cani rimasero a stazionare davanti al cancello, ma col passare del tempo la loro aggressività si andò smorzando fino a scomparire.
 Probabilmente decisivo fu l’atteggiamento dei soldati di leva che sorvegliavano l’ingresso. In un primo tempo si erano mantenuti neutrali non essendo tenuti per regolamento ad affrontare il problema. Qualche volta, di fronte alle autorità, i militari avevano fatto scudo col loro corpo per lasciare libero il passaggio. E se i cani abbaiavano, la semplice vista di un fucile puntato costituiva un deterrente. Alla lunga, però, quella situazione grottesca cominciò a costituire uno svago nelle ore del turno di guardia davanti al tribunale. I soldati decisero di mettere da parte le maniere forti e presero a parteggiare per i cani. Ne adottarono prima uno – bianco, piccolo – poi due e poi tutto il branco, portando loro ogni giorno da mangiare.
 I cani trovarono che un pasto al giorno era un prezzo sufficiente per comprare la loro non belligeranza, e da allora non si registrarono altre aggressioni. Il caso a Termini Imerese finì in questo modo.
 Il gradino della scala evolutiva però era stato percorso. In salita dai cani e in discesa dagli uomini.
 
 Nel medesimo lasso di tempo, in febbraio, qualcosa del genere successe pure a Lipari, dove il centro storico dopo il tramonto da un giorno all’altro diventò un territorio in balia delle bande di randagi. Erano diversi branchi, che si facevano la guerra fra loro svegliando di soprassalto gli abitanti della zona. Le battaglie che tenevano sveglia la popolazione erano lunghi latrati nella notte, poi un convulso scomposto accapigliarsi e infine i guaiti della parte sconfitta. L’unica tregua che i branchi rivali si concedevano veniva quando un passante umano si avventurava nella zona del museo archeologico, una zona alta e tormentata di viuzze a saliscendi. Allora le bande si coalizzavano e c’erano vere e proprie notti di caccia all’uomo, anche se non si registrarono aggressioni e morsi veri e propri. I cani si limitavano a terrorizzare il passante e avventarglisi contro a corpo morto, come se volessero fargli festa, ma arrivando a fargli sentire sul volto il fiato pestilente e l’umidore del naso.
 Anche a Lipari le autorità si dimostrarono impreparate ad affrontare l’emergenza canina. Venne deciso che competente a discutere su chi fosse competente era il consiglio comunale. Ma siccome era inverno e non c’erano turisti da tutelare, la questione non fu considerata urgente e rinviata a quando fosse diventata improcrastinabile perché lesiva del prestigio turistico dell’isola.
 Di fatto non ci fu bisogno di provvedimenti perché le bande si sciolsero autonomamente nei primi giorni di primavera, quando i passanti notturni nel centro storico si fecero meno rari. Ma solo per quello. Il problema dei cani era a stento rinviato.
 
 Un giorno di marzo, a Catania, il disoccupato Carmelo Scalia di anni quarantasette, ubriaco, ebbe voglia di farsi un giro in automobile per le vie del centro. Non doveva andare da nessuna parte, ma gli piaceva l’idea di mettersi al volante e solidarizzare con gli altri automobilisti nel traffico del giovedì mattina. Prese con sé il suo cane, un pastore tedesco che aveva chiamato Rex e dal quale non si separava quasi mai. Al cane Rex piaceva andare in automobile perché dai finestrini vedeva moltissima gente con cui prendersela, gente che lui credeva di mettere in fuga e che cambiava sempre, a secondo dei ritmi dell’incolonnamento. Secondo lui intimidiva gli automobilisti abbaiando a tutti quelli che scorgeva, saltando dal sedile davanti a quello dietro per poter continuare ad abbaiare a ragion veduta. Nel chiuso dell’automobile quell’abbaiare era assordante, ma Carmelo Scalia nemmeno lo sentiva, tanto c’era abituato. Non aveva l’autoradio e il cane gli faceva compagnia.
 A un certo punto notò, passando e ripassando da piazza Duomo, che su una pedana c’era un vigile urbano che arrestava il traffico sempre e solamente dalla parte da cui veniva lui. Alla terza volta il vigile fermò proprio la sua Ritmo che stava per passare, e Carmelo Scalia si convinse che l’aveva fatto apposta. Probabilmente il vigile ce l’aveva con lui. Si era accorto che era passato diverse volte e in quel modo voleva punirlo per il suo girovagare nel traffico senza avere una meta precisa. Ma era una colpa, quella? Non poteva lui girare a cazzo quanto gli pareva e piaceva?
 Alla quarta volta lui era il secondo della fila fermata e Carmelo Scalia fu certo che il vigile lo aveva visto. A quel punto era diventata una questione di principio. Fece il giro e tornò apposta in piazza Duomo per vedere se quello aveva il coraggio di fermarlo nuovamente. Era la quinta volta che ripassava, e finalmente il vigile faceva segno che dalla sua parte si poteva procedere. Finalmente, certo. Ma Carmelo Scalia ci restò quasi male. Tanto era il risentimento accumulato nei quattro stop che aveva dovuto subire in precedenza, che vedendosi il vigile davanti, bello sulla sua pedana, gli parve un’idea cercare di metterlo sotto. Puntò su di lui  a una velocità sostenuta e determinata. Quando l’auto fu a pochi metri, il vigile si rese conto di quel che stava per succedere e saltò. A Carmelo Scalia parve sufficiente averlo buttato giù da dov’era e all’ultimo momento decise di sterzare, finendo contro una macchina posteggiata.
 Fu una gran botta, tanto che il claxon si mise a suonare ininterrottamente. Forse per la botta e forse per il claxon, Carmelo Scalia ebbe un soprassalto di lucidità. Si rese conto del danno che aveva fatto e degli innumerevoli danni che ne sarebbero derivati da lì a poco. Da un punto di vista fisico si sentiva più male che bene, ma non tanto male da scendere dalla macchina e farsi mettere di fronte alle sue responsabilità. Allungò le mani per mettere, intanto, la sicura a tutti e quattro gli sportelli.
 Il vigile nemmeno si era fatto male saltando dalla pedana. Si alzò da terra, mise brevemente in ordine la divisa, quindi andò a capire chi era quello (stronzo) e perché (cazzo) aveva tentato di investirlo. Si avvicinò alla Ritmo e Carmelo Scalia nemmeno si voltò a guardarlo. In compenso il cane Rex si scagliò contro il finestrino mettendosi ad abbaiare tanto da coprire il claxon, che difatti smise di suonare come se fosse annichilito. Il silenzio improvviso che si era creato poteva essere surreale, a quell’ora di punta e in quel posto, se però non ci fosse stato l’abbaiare smorzato solo dai finestrini chiusi dell’automobile. Fin da principio fu chiaro che il cane non aveva intenzione di fare accostare nessuno. Ci provarono altri passanti per vedere che succedeva. Ma a tutti Rex ugualmente abbaiava, e nessuno osava avvicinarsi.
 Avvenne così che uno snodo cruciale del centro di Catania venne bloccato da cane e padrone barricati in automobile e assediati da un doppio cordone composto da forze dell’ordine (vigili urbani, più carabinieri, più polizia) e semplici curiosi.
 Carmelo Scalia, da dentro, fece un patetico tentativo di fingersi svenuto. Poi fece la parte dell’ubriaco che faceva finta di essere ubriaco, ma con scarsa convinzione, visto che si rendeva conto lui stesso di quanto il guidare in stato di ebbrezza fosse semmai una aggravante.
 Dopo tre quarti d’ora di assedio, Carmelo Scalia accettò di comunicare con il mondo esterno abbassando tre dita di finestrino. Spiegò in maniera confusa che non l’aveva fatto apposta e che insomma il danno che aveva procurato alla sua Ritmo gli pareva una punizione sufficiente:
 – L’avete visto che s’è fatta la macchina?
 E con questo gli pareva di avere saldato il suo conto con la giustizia. Chiarì subito, pertanto, che non aveva intenzione di scendere dalla macchina. Dettò le sue condizioni. Non voleva aerei per scappare, né garanzie particolari. Voleva che si levassero da attorno a lui. Se c’era una multa da pagare sarebbe stato disposto a pagarla. Purché per favore gliela mandassero a casa perché sul momento non aveva contanti ed era troppo confuso per conciliare o contestare. Voleva insomma che tutte le persone si allontanassero e dimenticassero quello che era successo come lo avrebbe dimenticato lui. Senza rancore.
 L’accerchiamento della Ritmo, però, anziché diminuire aumentava. Ogni minuto si aggiungevano altri automobilisti che rallentavano per guardare che succedeva e, appena superata la strozzatura del traffico, lasciavano la macchina dove potevano e andavano pure loro a fare folla.
 Da dov’era chiuso, Carmelo Scalia vedeva praticamente solo una muraglia di corpi attorno all’automobile. Ogni tanto uno dei poliziotti o carabinieri prendeva una radiotrasmittente per chiedere alla centrale di mandare rinforzi e unità cinofile. Gli pareva che tutto quello spiegamento di uniformi e quell’allarme fossero ingiustificati, e comunque di sicuro sproporzionati all’evento. In più c’era il suo stesso cane che abbaiava sempre più eccitato dalle persone che si vedeva intorno. Carmelo Scalia conosceva quel genere di eccitazione vertiginosa che ogni tanto prendeva Rex. L’aveva vista quando qualche ragazzino, passando davanti al cancello del giardino e sentendolo abbaiare, anziché spaventarsi e andare via, si fermava a sfotterlo, confidando nel fatto che l’inferriata fosse una protezione sicura. Allora il cane Rex si esasperava per quella provocazione e latrava sempre più forte, ruotando su se stesso e sfinendosi di rabbia.
 Anche quella volta, in piazza Duomo, il cane Rex latrava sempre più forte e girava su se stesso e si scagliava sui finestrini come se volesse romperli a testate. Carmelo Scalia era abituato a quel modo di fare, si rendeva conto che lo faceva per un senso di protezione nei suoi confronti. Però non era abituato all’effetto che quell’eccitazione creava nello spazio ristretto di un abitacolo d’automobile. Quando Rex arrivava all’acme dell’eccitazione ricadeva sfinito e per Carmelo Scalia era un sollievo. Gli assedianti però a quel punto si facevano sotto, e dopo pochi secondi il cane riprendeva il suo scatenamento.
 Carmelo Scalia passò da uno stato di ubriachezza a uno di quasi lucidità a, infine, uno di mal di testa e desiderio di strozzare il suo stesso amatissimo Rex. Ebbe anche la tentazione di farlo uscire e vedere se questo magari serviva a spaventare e disperdere la folla degli assedianti e farli allontanare. Ma intuì che il gesto avrebbe peggiorato la sua posizione di fronte alla legge. Decise quindi di farlo restare e proseguire le trattative.
 Passarono due ore, e alla fine Carmelo Scalia accettò di lasciarsi arrestare. Tentò di ammansire Rex, ma l’eccitazione del cane era tanta che nemmeno dal padrone volle accettare ordini. Passò un altro quarto d’ora di tentativi, ma alla fine Carmelo Scalia si rassegnò a lasciare il cane Rex dentro la macchina a prendersela da solo contro il mondo. E nemmeno il suo arrendersi piacque al pastore tedesco, che la prese come una diserzione. Arrivò persino a ringhiare contro il suo padrone, ma solo per un breve momento. Poi si lasciò distrarre da un poliziotto dall’altra parte e Carmelo Scalia poté scendere dall’auto e farsi portare via.
 Era arrivato da tempo un carro attrezzi che le forze dell’ordine avevano tenuto come estrema risorsa, se non fossero riusciti a ottenere una resa, per portare via allo stesso tempo automobile, cane e proprietario di entrambi. Non fu necessario arrivare a tanto, ma visto che ormai il cane Rex era incontrollabile e reso ulteriormente rabbioso dall’abbandono del padrone, il carro attrezzi intervenne senz’altro imbracando la Ritmo e portandola via col cane Rex che continuava a latrare. E questa fu l’ultima notizia che si ebbe di lui.
 Il fatto finì sui giornali riassunto in poche righe, ma a qualcuno venne in mente di metterlo in relazione con quello che stava succedendo a Termini Imerese e a Lipari. Nonché con un altro fatto che alcuni giorni prima era successo in una fattoria nelle campagne di Gela.
 
 Il cane arrivò di prima mattina. Era un dobermann randagio in cerca apparente di cibo. Che fosse randagio si capiva dalle macchie di terra sul pelo che rendevano il suo aspetto meno aggressivo rispetto al consueto della sua razza. Entrò nel cortile annusando in giro. Il proprietario della fattoria – Nunzio Ficarra, di anni quarantanove – sentendo lo scalpiccio si affacciò dalla finestra della cucina e gli gridò contro, credendo con questo di avere liquidato il problema. Il cane ringhiò, ma piano. Ficarra pensò:
 – (Come si permette?)
 Venne fuori in cortile, raccolse una pietra e la tirò nella direzione dell’animale, ma senza colpirlo. Il dobermann allora si raccolse sulle zampe posteriori, come fanno i cani quando stanno per lanciarsi contro qualcuno. Per quanto potesse avere un aspetto dimesso era pur sempre un dobermann, per cui Ficarra dopo avere fatto una serie di versi del genere che si fanno ai cani per cacciarli (Zzzt, Attìa, Passeddà) e vedendo che il cane non ne era affatto impressionato, ripiegò all’interno della fattoria.
 Commise però l’errore di non chiudere la porta, e il dobermann lo seguì dentro.
 Erano in cucina e a separarli c’era un tavolo. Ficarra s’immaginò un inseguimento intorno al tavolo, sul quale, forse, salendo avrebbe trovato scampo. Il cane però non si mosse. Fu Ficarra a muoversi per primo: un passo verso destra, dove c’era un attizzatoio che gli serviva per il forno. Ma il cane di passi ne fece una decina, tagliandogli la strada e costringendolo a allontanarsi. Seguirono altri momenti di studio reciproco, fino a quando improvvisamente il cane cominciò ad abbaiare molto forte. Il mozzicone di coda che gli era rimasto si muoveva, ma Ficarra non si illuse che fosse un abbaiare festante. C’era sulla sinistra la porta del gabinetto. Fece una finta a destra e corse a chiudersi là. Il cane, che in un primo tempo aveva abboccato alla finta, scattò a sua volta, ma si andò a schiantare sulla porta appena chiusa. Ficarra seppe con certezza che se il cane fosse arrivato una frazione di secondo prima l’avrebbe fatto per mordere. Al pensiero del dobermann che si accaniva contro una delle sue gambe o peggio, Ficarra automaticamente chiuse a chiave, e allo stesso tempo gli venne da sorridere per la sua precauzione.
 Esasperato dalla preda che si era sottratta, il cane trovò sfogo continuando ad abbaiare e grattando con le zampe la porta del gabinetto. Ficarra, giudicando da quello che sentiva, decise che era meglio aspettare.
 Passò un’ora, il cane restava lì e Nunzio Ficarra pensò che così non poteva andare avanti. Razionalizzando, aveva tre possibilità. Poteva uscire e affrontarlo con un’arma da stabilirsi, restare chiuso in gabinetto oppure tentare una fuga. Siccome l’arma da stabilirsi non riuscì a stabilirla e l’unica fuga era possibile dalla ignobile, fetente finestrella del gabinetto, decise di aspettare ancora e aspettò.
 Il cane aveva adottato un atteggiamento da assedio. Dopo essersi sfogato restava a riprendere fiato per alcuni secondi e poi tornava all’attacco della porta. Ficarra capì che chiudersi a chiave non era stata una precauzione inutile, visto che il cane poteva anche solo per caso, nel corso dei suoi assalti, abbassare la maniglia e aprire la porta. Per sicurezza diede un’altra mandata.
 Passò un’altra mezz’ora e l’idea di scappare dalla finestrella era diventata meno ignominiosa. Era una finestra piccola, che dava sul tetto. Ma dal tetto si poteva con un salto arrivare in strada e chiamare aiuto. Continuava a sembrargli una soluzione estrema, ma molto meno assurda di prima. Quindi si fece coraggio, salì su uno sgabello, riuscì a issarsi sulla finestra e ad attraversarla, trovandosi infine sul tetto e poi in cortile, sperando di non essere visto da nessuno mentre come un ladro stava scappando da casa sua.
 Il cane non poteva conoscere le sue manovre, ma lo stesso, per sicurezza,  Ficarra dal cortile fino in strada ci arrivò a passo di corsa. Cercò di fermare un paio di automobili di passaggio senza riuscirci. La terza era quella di un suo conoscente che si fermò. Mentre si faceva accompagnare alla caserma dei carabinieri, Ficarra raccontò al suo conoscente la storia che gli stava capitando, e facendolo si rese conto per la prima volta di quanto fosse inverosimile. A maggior ragione, quando la raccontò ai carabinieri ci mise del tempo a convincerli di non essere impazzito. E, se non l’avessero conosciuto, difficilmente due di loro – appuntato e maresciallo – si sarebbero convinti a seguirlo.
 Col conforto dei carabinieri tornò alla fattoria. Arrivarono proprio mentre il dobermann, furioso all’idea di non potersela prendere con qualcuno, stava marcando ogni angolo della fattoria, interno ed esterno, con brevi schizzi noncuranti, alla maniera dei cani. Era uno dei due modi adottati per segnalare che quello era da considerare ormai territorio di sua proprietà. Il secondo modo che il cane adottò, quando vide che gli umani erano tornati in forze, fu quello di trascinare platealmente fuori dal portale della fattoria tutti i vestiti e gli oggetti lasciati dal proprietario, masticandoli in segno di disprezzo. Masticò anche il portafogli con quel che c’era dentro, compresi i soldi, comprese le carte di credito.
 I carabinieri fecero un tentativo di avvicinarsi: appuntato avanti, maresciallo a seguire. Ma l’atteggiamento del dobermann fu tale da scoraggiare altre iniziative affrettate. Anche perché, come fece notare l’appuntato, lo stato di alterazione dell’animale faceva pensare che avesse contratto una forma di rabbia.
 Ficarra, dopo aver sperato che la sola presenza delle divise potesse costituire una soluzione ai suoi problemi, passò dallo sbigottimento all’impotenza, per arrivare nel giro di poco all’indignazione per quella specie di esproprio che stava subendo. Chiese:
 – Non possiamo spararci?
 Il maresciallo rispose:
 – Spararci come si fa?
 E alle insistenze di Ficarra gli spiegò che si poteva, sì, abbattere il cane, ma a parte il dispiacere per la povera bestia (Ma quale povera e povera, obiettò Ficarra) lui e loro sarebbero andati incontro a una serie di problemi con superiori e animalisti. Per evitare fastidi, quindi, meglio per il momento soprassedere e cercare una soluzione pacifica.
 Si fece sera sperando in maniera sottintesa che il cane decidesse di andarsene spontaneamente. Ma il cane restò asserragliato dentro, venendo all’aperto solo per trascinare gli oggetti che man mano andava trovando e la cui perdita gli pareva potesse addolorare maggiormente il proprietario. Alle sette, quando ormai era buio da quasi un paio d’ore, a Nunzio Ficarra non rimase che andare a dormire da certi parenti. Lo accompagnarono i carabinieri e dissero che l’indomani una soluzione si sarebbe trovata. Ficarra stette molto attento ad accorgersi di eventuali tracce di ironia nelle loro parole, ma non ne trovò. Andò a coricarsi con la certezza che i carabinieri avevano preso sul serio la sua vicenda.
 Tornò l’indomani con un paio di parenti. Guardarono, si avvicinarono, entrarono nella fattoria. Usarono ogni prudenza, badando sempre a lasciarsi una porta immediatamente alle spalle da mettere, in caso d’attacco, fra loro e l’aggressore.
 Niente. Il cane non c’era più.
 I parenti si accingevano persino a pensare che tutta la storia fosse una fantasia. Lo stesso Ficarra andava riacquistando il buonumore. Tornarono fuori dalla casa a commentare la vicenda e fu allora che il dobermann ricomparve sull’ingresso del cortile.
 Era sempre sporco, ma sembrava meno disperato e affamato. Li aveva visti e sembrava non prenderli in considerazione, anche se aveva ripreso a muoversi e lo faceva verso di loro. Il panico si impadronì dei tre. Rimasero immobili mentre il cane si avvicinava, ciascuno ripassando mentalmente in pochi attimi tutta la mitologia imperniata sulla ferocia dei dobermann.
 Ad assumere l’iniziativa fu Ficarra, che prese gli altri due per le braccia e molto lentamente fece in modo che si spostassero di qualche metro verso destra. Il cane non si dimostrò contrario a quel movimento. Sembrò anzi nemmeno accorgersene. Continuò a camminare e passò oltre puntando verso la porta della cucina, dove a quanto pare era diretto. Bastava spostarsi dalla sua traiettoria. Ficarra e gli altri due aspettarono che fosse dentro per allontanarsi non correndo, ma insomma rapidamente.
 Vennero chiamati nuovamente i carabinieri. Stavolta, disse Ficarra:
 – Mi pare più manso.
 I carabinieri ci provarono. Pistole in pugno, maresciallo e appuntato entrarono nel recinto della fattoria. Erano arrivati in cortile quando il dobermann venne fuori con un pezzo di pane in bocca, lo sputò e si mise a ringhiare. L’appuntato puntò l’arma ma il maresciallo gli fece segno di smetterla e ritirarsi lentamente. Restava sottinteso che se il cane li avesse attaccati avrebbero aperto il fuoco. Ma non ce ne fu bisogno, perché il cane rimase dov’era a ringhiare. Diede due latrati solo quando i carabinieri furono fuori dal suo supposto territorio.
 Mentre Ficarra e i suoi parenti avevano ripreso a chiedere la testa del cane, i carabinieri si consultarono con la caserma. La caserma si consultò col comando provinciale e il comando provinciale, pur mantenendo una certa riserva sulla possibilità di risolvere la situazione con mezzi propri, contattò un rinomato addestratore di dobermann che abitava però a Terrasini, dall’altra parte dell’isola. Domandarono se ce ne fosse uno più vicino – non c’era – e chiesero all’addestratore di intervenire.
 L’addestratore arrivò cinque ore dopo circondato da un’aura di competenza. Si fece raccontare bene che cosa era successo e quale era stato il comportamento dell’animale. L’unico vero pericolo – spiegò – era che il cane fosse rabbioso o in preda a qualche genere di impazzimento.
 Ficarra si ricordò e disse di una cosa che aveva letto: i dobermann hanno una scatola cranica molto piccola e poco elastica. Se quindi il cervello cresce troppo si trova a essere compresso dalle ossa del cranio e in questo modo il cane impazzisce.
 L’addestratore lo guardò col compatimento del professionista nei confronti dell’orecchiante, ma non disse nulla, anche perché nel frattempo il dobermann invasore si era fatto vedere e non gli pareva né rabbioso né impazzito. L’addestratore si limitò a entrare nel cortile con grande sicurezza. Non diede al cane quasi nemmeno il tempo di  mettersi a ringhiare. Impartì pochi ordini molto decisi e l’animale – bastava chiedere – venne a accucciarsi ai suoi piedi. L’addestratore gli diede una carezza sulla testa e questo fu tutto.
 Ficarra lo ringraziò, i carabinieri lo ringraziarono. I carabinieri gli chiesero pure se poteva per favore portarsi via il cane, visto che la mancanza di un canile e di una loro competenza specifica li avrebbe costretti ad abbatterlo. Fu decisivo forse questo argomento, o forse il fatto di riconoscere sotto la sporcizia del pelo i quarti di nobiltà del dobermann: insomma, l’addestratore accettò di portarlo con sé.
 Nunzio Ficarra si disinteressò della sorte del cane. Riprese possesso della sua fattoria e fece la conta dei danni. A consuntivo risultò che i problemi maggiori li ebbe con le carte di credito, non volendo credere la banca alle motivazioni addotte per il rilascio dei duplicati. Alla fine firmò una dichiarazione in cui sosteneva di averli perduti, e in questo modo si sbrigò.
Dopo quest’altro episodio di Gela, furono in molti a parlare di una rivolta dei cani in Sicilia. Forse – arrivarono a pensare alcuni apocalittici – da qui stava partendo una grande rivoluzione mondiale. Secondo questa ipotesi dopo il periodo delle creature umane erano i cani a essere destinati a diventare razza padrona sul pianeta terra. Presto – dicevano gli apocalittici – i cani prenderanno il posto degli uomini come gli uomini a suo tempo presero il posto dei dinosauri. Magari l’uomo sopravviverà ancora per chissà quanto tempo, ma la sua civiltà è destinata a cedere il passo. Naturalmente questa tesi fu molto avversata, e soprattutto in certi ambienti accolta con sarcasmo.
 Come sia finita però ancora non si può dire, perché la storia sta andando avanti e ci sono cani dappertutto.

 
 
 
 
Roberto Alajmo, scrittore,  è nato a Palermo dove continua a vivere.
Fra i suoi libri: Almanacco siciliano delle morti presunte (edizioni della Battaglia, 1996), Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, ha pubblicato i saggi Palermo è una cipolla e 1982. Memorie di un giovane vecchio.
Per il teatro: Repertorio dei pazzi della città di Palermo, Centro divagazioni notturne  e il libretto dell’opera Ellis Island, per le musiche di Giovanni Sollima.
Il suo ultimo romanzo, pubblicato da Mondadori nel 2008 si intitola La mossa del matto affogato.Suoi lavori sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e olandese




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